Cultura e folklore
Vita rurale: pastori e contadini a Castelluccio
Pastori e contadini a Castelluccio: la vita rurale dei Monti Sibillini scandita dai ritmi della terra
A Castelluccio fino agli anni del 1950 le attività principali erano la pastorizia e l’allevamento: a settembre quelli che erano al servizio come pastori con le masserie di pecore transumavano nella Maremma laziale e nel mese di giugno tornavano a Castelluccio, gli altri pastori, quelli che avevano pecore di loro proprietà consideravano il lavoro dei campi troppo faticoso, tant’è che per la maggior parte dei lavori agricoli salivano a lavorare a Castelluccio dai paesi dell’ascolano, dall’altra parte del Vettore, mietitori, falciatori e carpirine.
Cover foto di Luciano Battaglia
La vita rurale a Castelluccio iniziava il giorno della ricorrenza dell’Epifania, il 6 gennaio. Quel giorno i pochi uomini che erano rimasti a Castelluccio si recavano in chiesa ad ascoltare la messa in attesa di conoscere dal prete la data della Pasqua e delle altre feste.
Agli uomini interessava principalmente la data della Pasqua, perché indica la prima luna piena dopo l’equinozio di primavera con la quale si dava inizio alla semina dell’orzo della roveja, del farro dei moghi, e della lenticchie, mentre la segala e il grano venivano seminati a Settembre/Ottobre. Quel giorno dell’Epifania, nel primo pomeriggio, gli uomini passavano di casa in casa per la questua della zampetta di maiale e con le zampette raccolte si faceva una grande cena in comune in cui ognuno doveva portare il pane, e il piatto dove mangiare. Nei giorni successivi gli uomini iniziavano a preparare e riparare gli aratri, a controllare i finimenti e tutte le altre cose che sarebbero servite per imbragare i muli o i buoi per tirare l’aratro per arare i campi.
Fino agli anni del 1950 la comunità rurale di Castelluccio praticava la semina a vece, a rotazione: un terzo del terreno era seminato a grano, orzo e segala, un terzo a lenticchia, roveja, farro e moghi, un terzo a riposo. La semina più importante fino agli anni del 1950 era il grano, la segala e l’orzo venivano usati per fare le farine per il pane per tutta la famiglia; se il raccolto era abbondante l’eccedenza si usavano come biada per gli animali, oppure era dato, con la clausola della restituzione, a quella famiglia che in quell’anno aveva avuto un raccolto scarso e non sufficiente per tutto l’anno. C’era una regola poi che voleva che la donna che si sposava in settembre doveva portare in dote, oltre il corredo, il grano per la farina sufficiente per il suo mantenimento fino all’anno successivo.
Ogni famiglia aveva una cantina, dove venivano, costudite le farine per il pane e per la pasta, la roveja per fare la minestra o macinata per fare la farecchiata, il farro tritato per fare le minestre con l’aggiunta di cotiche o pezzi di zampetto di maiale per dare sapore alla pietanza, e i moghi macinati o interi da usare per ingrassare il maiale o come ricostituente per qualche animale della stalla convalescente. Dopo la macellazione del maiale trovavano posto in cantina le salcicce, o capocolli, i farati di sangue e di farro, le costecelle, i prosciutti, le spallette, i salami e la coppa e quello che a quei tempi era la cosa più importante “il lardo”. Quando una famiglia aveva in cantina, tutte queste cibarie non c’era inverno lungo che mettesse paura. Nei giorni di festa le patate al forno con pezzettini di lardo e un po’ di carne di pecora era un pasto da re.
Sia la Comunanza che la Confraternita del SS. Sacramento di Castelluccio avevano dei campi che in primavera e in autunno erano messi all’asta per la semina. Questi campi erano importantissimi perché la famiglia che aveva poca terra da seminare, specialmente per il grano, poteva prenderli in affitto e seminarli. Di questi terreni potevano essere dati in uso: quelli della comunanza solo agli utenti, quelli della Confraternita solo a quelli che erano stati battezzati nella Parrocchia di Castelluccio. L’affitto dei campi da seminare era corrisposto in base al prezzo dell’orzo e questa regola è rimasta in vigore fino all’inizio degli anni del 1960.
A Castelluccio, arare il terreno, la mietitura e raccolta degli altri semi erano quantificato con la cosiddetta “opera”.
Un’opera corrispondeva a una giornata di lavoro e naturalmente il numero delle opere variava a secondo la vece di semina. Per esempio per arare un campo dove seminare il grano ci voleva più tempo in quanto l’aratura era fatta a croce, prima da sud verso nord, poi da est verso ovest.
Quando i semi erano maturi per “carpire” (raccogliere) un campo di lenticchia da un ettaro, se ricordo bene, occorrevano dodici opere, vale a dire che una persona per carpire un campo di lenticchia da un ettaro(10.000 metri quadrati) ci impiegava dodici giorni. Un campo di grano, da un ettaro, per essere mietuto occorrevano la metà delle opere di un campo di lenticchia. Queste misure avevano un’importanza fondamentale al tempo della raccolta perché questi lavori di mietitura e di carpitura erano fatti da mietitori e carpirine, che venivano a Castelluccio dai paesi dell’altro versante del Vettore, dai paesi dell’ascolano e conoscevano a perfezione tutti i campi da lavorare; sapevano benissimo, dato che questi lavori se li tramandavano da una generazione all’altra, di quante ”opere” erano necessarie per mietere o carpire un campo. L’importanza dell’opera scaturiva dal fatto che, il padrone del campo, quando dava l’incarico a un mietitore di mietere un campo di segale da un ettaro sapeva che ci impiegava 6 giorni, in questi sei giorni il padrone doveva fornire al mietitore la colazione, il pranzo e la cena. Sia i mietitori che il padrone avevano interesse affinché il campo fosse mietuto il più velocemente possibile, per questo motivo i due si accordavano affinché il lavoro fosse fatto a cottimo, vale a dire che il mietitore lavorava più ore e più velocemente durante la giornata impiegando la meta del tempo regolare. Il mietitore ci guadagnava perché poteva iniziare un nuovo campo, mentre il padrone aveva il raccolto mietuto con minor tempo e quindi lo poteva portare all’aia e ripararlo dalla pioggia e risparmiava due o tre giorni di vitto.
La giornata lavorativa nei campi iniziava con il suono della campana al mattino e a mezzogiorno, sempre il suono della campana dava il segnale di riposo e per consumare il pranzo, poi al tramonto, sempre il suono della campana annunciava la fine della giornata lavorativa. Ai lavoratori che usavano fare il lavoro a cottimo gli orari scanditi dalla campana non interessavano.